Le donne nei processi di pace
Poco più di vent’anni fa, il 31 ottobre 2000, il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha approvato all’unanimità la risoluzione 1325. Con questo documento pionieristico, il Consiglio di sicurezza ha riconosciuto per la prima volta che il coinvolgimento attivo e significativo delle donne nei processi decisionali nell’ambito politico e della sicurezza è inscindibile dalle attività volte a costruire una pace e una sicurezza durature. Dopo due decenni, l’attuazione dell’agenda sulle donne, la pace e la sicurezza procede ancora a rilento. Mentre sono in prima linea nel contrastare le crisi all’interno delle loro comunità e nell’instaurare il dialogo e la fiducia in periodo di conflitto, le donne vengono tendenzialmente escluse dai processi che plasmano il futuro delle società in cui vivono. La Svizzera vanta una lunga storia di impegno nella risoluzione di conflitti ed è considerata un partner affidabile nel consolidamento della pace. Come vengono incluse le donne in questi sforzi? Quattro donne che lavorano e svolgono diverse funzioni nel campo condividono con noi le loro opinioni sulla partecipazione delle donne ai processi di pace.
Dai dati emerge un’immagine abbastanza emblematica: secondo il think tank Council on Foreign Relations, tra il 1992 e il 2019 la quota di mediatrici ammontava al 6 per cento, e quella delle donne attive nei negoziati in importanti processi di pace era del 13 per cento. Di recente si sono registrati lievi miglioramenti. Infatti, tra il 2015 e il 2019 la percentuale di mediatrici ha finalmente raggiunto la doppia cifra attestandosi all’11 per cento, mentre quella delle negoziatrici è passata al 14 per cento. Ma il discorso dell’inclusione delle donne va ben oltre i negoziati ufficiali. Un processo di pace inclusivo deve avere spazi formali e informali che possano mettere in risalto le prospettive e le esperienze di ampi segmenti della popolazione, comprese la società civile e le donne che promuovono la pace.
Partendo dagli spazi ufficiali…
Christine Schraner Burgener è una diplomatica svizzera con 30 anni di esperienza nel campo della politica estera. Nel 2018 ha assunto la funzione di inviata speciale del segretario generale dell’ONU per il Myanmar. Il passaggio dal ruolo di ambasciatrice a quello di mediatrice è sembrato quasi naturale. Nel 2010, quando sono scoppiati violenti scontri che hanno causato numerose vittime in Thailandia, Christine Schraner Burgener non è rimasta a guardare. Quale ambasciatrice di Svizzera a Bangkok, poteva contare su una preziosa rete di contatti e godeva della fiducia di tutte le parti. Questo le ha permesso di avviare e condurre, con il sostegno di Berna, un processo di mediazione quinquennale tra le due parti nella sua residenza. Il fatto che fosse una donna non è mai stato un problema in questo contesto. «In Asia le cose sono diverse rispetto all’Europa. Non importa che tu sia donna o uomo. Quello che conta è la posizione che occupi. In Thailandia partono dal presupposto che una persona meriti la posizione che occupa e quindi le portano rispetto», racconta Christine Schraner Burgener. In Europa invece il fatto che le donne occupino posizioni di leadership che in precedenza erano di appannaggio degli uomini è ancora considerato straordinario. I media svizzeri hanno subito colto l’occasione per sottolineare che Christine Schraner Burgener è stata la prima donna a capo dell’Ambasciata di Svizzera a Berlino, al termine della sua missione in Thailandia.
È vero che ero la prima donna, ma dovrebbe essere una cosa normale.
Anche Mô Bleeker, inviata speciale per l’elaborazione del passato e la prevenzione delle atrocità presso il Dipartimento federale degli affari esteri, ha avuto la stessa impressione nella sua funzione di mediatrice.
Le parti tendono a mostrarsi rispettose nei confronti delle donne che occupano una funzione formale.
Bleeker ha trascorso due decenni della propria carriera partecipando a processi di pace – tra cui quelli in Colombia e nelle Filippine – e fornendo consulenza alle parti in conflitto su una delle questioni più spinose in un negoziato di pace, ovvero come affrontare seriamente le violazioni dei diritti umani e le atrocità commesse in tempo di guerra. Fino alla fine degli anni 1990, giustizia e pace erano considerate antitetiche. Tipicamente, la priorità dei mediatori era assicurare il cessate il fuoco, lasciando l’obbligo di rendere conto del proprio operato – semmai se ne fosse tenuto conto – per un secondo momento, molto più tardi. Un cambiamento è avvenuto con l’istituzione della Corte penale internazionale, nei primi anni 2000. Poco dopo, infatti, l’ONU ha dichiarato che non avrebbe approvato accordi di pace che non tenessero conto del problema dell’impunità: non sarebbero più state accettate amnistie generali per gravi violazioni del diritto internazionale. «In quel periodo, l’ambiente dei mediatori era costituito per lo più da uomini occidentali in età avanzata che non avevano mai avuto a che fare con l’obbligo di rendiconto all’interno di un processo di pace, oppure solo con le amnistie», spiega Mô Bleeker. Introdurre la giustizia di transizione nei negoziati di pace e illustrare alle parti questo punto cruciale già nelle prime fasi del processo è stato un processo arduo.
Se sono spesso accettate volentieri dalle parti, non di rado le mediatrici si sentono sottovalutate, in particolare dai colleghi occidentali. Allo stesso tempo, però, «quando ti muovi senza farti notare, puoi realizzare cose che nessuno credeva potessi fare. Come, per esempio, riuscire a stabilire un contatto con il capo di un esercito o andare in luoghi rischiosi per colloqui confidenziali», spiega Christine Schraner Burgener «Oppure posso visitare i Rohingya in Bangladesh e parlare in modo molto franco con le donne per conoscere la loro situazione. Un uomo non potrebbe mai farlo, a causa delle norme culturali», aggiunge. Inoltre, spiccate competenze sociali e un comportamento rispettoso sono caratteristiche fondamentali per un mediatore, a cui si aggiungono all’occorrenza autorevolezza e perspicacia nel trattare i temi del negoziato. Il mediatore deve anteporre il processo di negoziazione alle proprie ambizioni di carriera. «Il successo appartiene alle parti; non è a chi l’ha mediato, ma alle persone sul campo», conferma Bleeker.
Includere le donne nei processi di mediazione è un elemento essenziale per condurre negoziati. «Come inviata speciale per il Myanmar, ho voluto creare una rete di donne che mi consigliano su vari argomenti e con cui mi riunisco periodicamente», dice Christine Schraner Burgener. Inoltre incoraggia le donne che fanno parte della sua rete di consulenza a dare seguito alle conclusioni raggiunte durante i loro incontri. Oggi, l’agenda sulle donne, la pace e la sicurezza fa parte del processo di pace.
...passando dalle operatrici di pace sul campo….
Lo Stato del Sudan del Sud è nato nel luglio 2011, dopo decenni di guerra civile. Nei suoi sforzi per costruire un ordinamento statuale, democratico e pacifico, il nuovo Paese africano è sostenuto dalla Svizzera, anche tramite il lavoro di Lydia Minagano, incaricata di programma nazionale, e Joane Holliger, consigliera per la sicurezza umana a Juba dal 2018. Le due donne sono impegnate a rafforzare la partecipazione civica nel processo di riconciliazione, incoraggiando i giovani a contribuire all’attuazione dell’accordo di pace del 2018 e facilitando il dialogo per consolidare la coesistenza pacifica e la coesione sociale.
Joane Holliger è abituata a lavorare con uomini in posizioni di comando. «Una volta che capiscono che puoi apportare un valore aggiunto e conoscenze, che non sei timida e che ti fai valere, ottieni il loro rispetto», dichiara. Di sicuro aiuta che la Svizzera goda di una buona reputazione in Sudan del Sud, dato che ha sostenuto l’accordo di pace globale del 2005 che ha portato alla sua indipendenza. Al contempo però gli uomini non sono così disposti a lavorare con donne del Sudan del Sud come lo sono con le donne straniere. Nell’accordo di pace del 2018, la società civile e le attiviste hanno lottato per una disposizione che assegna alle donne il 35 per cento delle posizioni nelle istituzioni governative, riuscendo a ottenerla. Ma l’obiettivo non è ancora stato raggiunto. «Quando parliamo di partecipazione femminile e di permettere alle donne di rivendicare il loro posto al tavolo dei negoziati, stiamo sfidando anche alcune norme e credenze della nostra società», spiega Minagano.
Abbiamo a che fare con persone, nel mondo della politica, inserite in un tessuto sociale che le spinge a credere che le donne non dovrebbero far parte di questo ambiente.
I partiti politici devono anche fare i conti con il semplice fatto che non vi sono sufficienti donne iscritte. Alcuni partiti sono riusciti a nominare donne che hanno assunto in modo competente le loro nuove posizioni. Altri invece mirano solo a spuntare la casella (delle quote di genere) e hanno scelto donne che loro ritengono possano favorire gli interessi di singoli membri del partito. «Il patriarcato è un sistema che favorisce gli uomini e al contempo strumentalizza le donne per sostenerlo. Questo ha un impatto negativo sul rafforzamento del ruolo delle donne. Le attiviste hanno dovuto lavorare sodo per assicurarsi la quota del 35 per cento. E quando i partiti assegnano funzioni a donne incapaci di svolgere correttamente il lavoro, si veicola un’immagine negativa di ciò che le donne sono capaci di fare», aggiunge Lydia Minagano.
Secondo l’esperienza di Joane Holliger, quando si tratta di riconciliazione sociale, le donne sono spesso più ragionevoli degli uomini nei processi di dialogo e cercano soluzioni costruttive. Gli uomini sono più propensi a difendere le loro posizioni e a minacciare di farsi guerra, mentre le donne cercano tendenzialmente modi per interrompere la spirale della violenza. E non perché le donne siano più pacifiche degli uomini, ma piuttosto perché «sono per lo più le donne a sostenere il peso della guerra. Sono infatti esposte a molte sofferenze: possono aver perso mariti e figli o essere state vittime di violenze sessuali. E, nonostante tutto, sono loro che fanno funzionare la società», afferma Holliger. In questo senso, colmare il divario tra la società civile femminile e lo spazio politico potrebbe rafforzare gli sforzi di consolidamento della pace. «Le donne devono usare le proprie esperienze nella società civile come un mezzo per accedere allo spazio politico», dichiara Minagano.
...fino a giungere a un’iniziativa svizzera
L’8 marzo 2021 il DFAE lancia la rete «Donne svizzere nei processi di pace» (Swiss Women in Peace Processes, SWiPP), che collegherà 15 donne svizzere che lavorano in processi di pace, per il DFAE, per organizzazioni internazionali o per ONG. Attraverso scambi con mediatori ed esperti, ma anche attraverso l’apprendimento tra pari, la rete SWiPP offrirà una piattaforma che permetterà alle donne di fare networking, crescere sotto il profilo professionale e incrementare la visibilità delle donne svizzere attive nei processi di pace. Le voci delle partecipanti alla rete SWiPP si possono trovare qua.